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Le molestie sessuali sul luogo di lavoro

Le allusioni e le “avances” a sfondo sessuale messe in atto da un collega di lavoro giustificano l’adozione, da parte del datore di lavoro, di provvedimenti disciplinari.

molestie al lavoro

Cosa si intende per molestie sessuali?

Nel 2006 è entrato in vigore il Decreto Legislativo n. 198/2006 titolato “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” che all’art. 26 comma 2 propone una definizione normativa di molestia sessuale da intendersi come «quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo».

Successivamente, con il Decreto Legislativo n. 5/2010 è stata data attuazione in Italia alla Direttiva Europea 2006/54/CE contenente disposizioni per attuare il principio della parità di trattamento tra uomo e donna.

Tale direttiva, all’art. 2 co. 1 lett. d) definisce la molestia sessuale come «situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma verbale, non verbale o fisica, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare attraverso la creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo».

Quando si parla di molestie sessuali, pertanto, si intende alludere, pertanto, a tutti quei comportamenti attinenti alla sfera sessuale che risultano essere lesivi della dignità morale della persona (valore questo tutelato dalla Costituzione all’art. 2 e all’art. 3), a maggior ragione considerato che, essendo messi in atto sul luogo di impiego, violano anche il diritto fondamentale al lavoro (riconosciuto ad esempio dall’art. 4 e dall’art. 37 della Costituzione). 

Laddove poi il comportamento molesto sfoci in veri e propri atti sessuali comportanti contatto fisico si ricade (anche) nella grave ipotesi di reato di violenza sessuale cui all’art. 609 bis c.p.

Il fenomeno di cui stiamo parlando non è certo marginale se è vero che una indagine ISTAT del 2018 ha rilevato che sarebbero un milione 404 mila le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro.

Come può tutelarsi la vittima di molestia sessuale?

La vittima di una molestia sessuale sul luogo di lavoro deve attivarsi il prima possibile raccogliendo più elementi possibili da utilizzare come prova dei comportamenti attuati nei suoi confronti (come ad es., comunicazioni e-mail o telefoniche, testimonianze di colleghi, etc.).

Una volta raccolte le prove:

  • Può proporre una denuncia-querela penale
  • Comunicare al datore di lavoro l’accaduto

Se il molestatore è proprio il datore di lavoro oppure se alla denuncia del/della dipendente non è dato adeguato seguito, la vittima può rivolgersi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro al fine di sollecitarne l’attività propria di controllo e vigilanza (cfr. art. 2 D.Lgs., n. 149/2015).

Cosa possono fare i colleghi di lavoro?

Spesso i colleghi del lavoratore molestato assistono alle molestie o vengono a conoscenza di determinati fatti trovandosi di fronte al dilemma di decidere cosa fare.

È innegabile che vi sia paura di esporsi con il datore di lavoro e colleghi per evitare di subire ripercussioni negative nella sfera personale e lavorativa.

Per porre rimedio a tale obiettiva problematica è stato introdotto anche nel nostro ordinamento lo strumento del c.d. “whistleblowing” ovverosia della possibilità per un soggetto, il cui anonimato viene garantito, di segnalare al datore di lavoro la possibile commissione di illeciti penali, civili ed amministrativi.

La normativa di riferimento è quella prevista dal Decreto Legislativo n. 24/2023 il cui ambito di operatività è per il momento fortemente limitato in quanto, tra l’altro, legato ad una determinata soglia quantitativa di dipendenti impiegati nell’ultimo anno.

L’auspicio è quindi nel senso che l’efficacia di tale strumento, una volta messo alla prova dell’esperienza concreta, possa essere amplificata.

Cosa può fare il datore di lavoro?

Come visto in precedenza la molestia sessuale incide negativamente sulla salute psico-fisica del lavoratore destinatario del comportamento molesto.

Tenuto conto che il datore di lavoro risponde dei danni provocati ai dipendenti da comportamenti propri o di propri addetti (secondo quanto previsto dall’art. 2087 c.c. e dall’art. 2049 c.c.) è evidente come egli non possa rimanere inerte nel caso in cui in azienda si verifichino casi di possibile molestia.

Nel rapporto di lavoro subordinato il dipendente deve rispettare i generali doveri di diligenza, obbedienza e fedeltà nei confronti dell’imprenditore (cfr. art. 2104 e art. 2105 c.c.), la loro inosservanza legittima il datore ad esercitare il potere disciplinare.

Lo scopo di tale potere è quello di consentire all’imprenditore di tutelare l’organizzazione aziendale, anche attraverso il rispetto da parte dei lavoratori degli obblighi di legge e contrattuali, e si traduce nella possibilità di intimare sanzioni disciplinari nei confronti del lavoratore colpevole di trasgressione (cfr. art. 2106 c.c.).

La più importante sanzione disciplinare a cui può ricorrere il datore di lavoro è quella del licenziamento disciplinare (per giusta causa o giustificato motivo soggettivo) attraverso il quale l’imprenditore pone termine al rapporto di lavoro a causa di comportamenti particolarmente gravi del lavoratore, tali da rompere il legame di fiducia.

A fronte di comportamenti del lavoratore inquadrabili come “molestia sessuale” il datore di lavoro, fatto ricorso al potere disciplinare di cui gode e nel caso in cui ritenga fondato l’addebito al termine del procedimento previsto dalla legge (cfr. art. 7 Legge n. 300/1970 c.d. “Statuto dei Lavoratori”), può adottare la sanzione disciplinare ritenuta congrua, tra cui rientra anche il licenziamento disciplinare.

La molestia sessuale integra una giusta causa di licenziamento?

Una disamina della giurisprudenza recente consente di affermare che allusioni e “avances” a sfondo sessuale messe in atto all’interno dell’ambiente di lavoro giustificano il licenziamento del lavoratore colpevole.

In un caso recente (sentenza n. 23295/2023), ad esempio, la Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito che avevano considerato giusta causa di licenziamento il comportamento di un uomo che aveva rivolto allusioni verbali e fisiche a connotato sessuale nei confronti di una collega da poco assunta.

Come affermato in altra pronuncia (sentenza n. 25977/2020 della Corte di Cassazione) il licenziamento può considerarsi sorretto da giusta causa e misura proporzionata in caso di molestia sessuale in quanto tali requisiti vanno valorizzati rispetto a quanto richiesto dai valori dell’ordinamento per come esistenti nella realtà sociale.

Tra i casi affrontati dal Tribunale di Verona, invece, si può ricordare la sentenza n. 317 del 18.05.2021 con la quale il giudice del lavoro ha chiarito che ai fini della giusta causa di licenziamento la molestia non deve necessariamente essere integrata da un “atto finale” in forma fisica, potendo bastare espressioni anche verbali indesiderate idonee a ledere la dignità della vittima-destinataria.

Le sentenze pronunciate in materia chiariscono quindi che, ai fini della qualificazione come “giusta causa” di licenziamento della molestia sessuale, non è rilevante il fatto che il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o il codice disciplinare aziendale non prevedano espressamente tale ipotesi.

Rispetto a violazioni della dignità del lavoratore compiuta attraverso comportamenti indesiderati di connotazione sessuale, infatti, il licenziamento c.d. “in tronco” costituisce una sanzione proporzionata da parte del datore di lavoro, come detto obbligato in ogni caso ad adottare tutti i provvedimenti idonei e necessari a tutelare l’integrità psico-fisica dei suoi dipendenti.

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