·
info@studiolegalegulino.it
·
Lun - Ven 08:30-13:00 | 15:00-19:30
045 8034209

Quando un lavoratore viene licenziato ingiustamente può contestare l’atto del datore di lavoro impugnandolo espressamente.

Di seguito vedremo brevemente quali requisiti deve avere il licenziamento per essere valido e quali sono le possibilità che ha il lavoratore di impugnare stragiudizialmente il licenziamento prima di ricorrere, ove necessario, all’autorità giudiziaria per chiedere, la reintegrazione nel posto di lavoro e/o la corresponsione di indennità sostitutiva.

Come impugnare il licenziamento stragiudizialmente

Quando si può licenziare un lavoratore?

È facoltà del datore di datore di lavoro quella di licenziare un proprio dipendente in ogni momento.

Nel comunicargli la decisione, però, deve necessariamente rispettare alcuni requisiti come:

  • forma scritta
  • motivazione

Proprio la motivazione determina la tipologia di licenziamento.

Le forme di licenziamento più comuni sono: 

  • il licenziamento per giusta causa: (art 2119 c.c.) che si verifica nel caso in cui il rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore viene meno a causa di una trasgressione o una inadempienza da parte del lavoratore. Con la conseguenza che il datore di lavoro può recedere unilateralmente dal rapporto di lavoro senza rispettare il periodo di preavviso
  • licenziamento per giustificato motivo soggettivo: anche in questo caso si tratta di un licenziamento di tipo disciplinare essendo direttamente riconducibile a comportamenti colpevoli o negligenti del dipendente. In questo caso però il rapporto di lavoro, essendo l’inadempimento all’origine della sanzione di minore rilevanza, cessa al termine del periodo di preavviso stabilito dal contratto collettivo nazionale che si applica al caso di specie.
  • licenziamento per giustificato motivo oggettivo: che si verifica per motivi di natura tecnica/organizzativa dell’azienda. Si riconducono a questa fattispecie l’esternalizzazione di un servizio prima effettuato dall’azienda, una forte contrazione del fatturato, il superamento del periodo di comporto e/o l’inidoneità psico-fisica del lavoratore

Si può essere licenziati verbalmente?

Il licenziamento intimato verbalmente (oralmente) è nullo per mancanza dell’atto scritto e, come tale, non idoneo a risolvere il rapporto di lavoro (cfr. Cass. Civ., n. 10968/2018).

Ne consegue che in caso di licenziamento orale, il lavoratore non è tenuto a rispettare il termine di 60 giorni previsto dalla normativa a pena di decadenza per impugnare il licenziamento (cfr. Cass. Civ., n. 10547/2016).

Difatti, per far valere l’inefficacia del licenziamento, l’unico termine che il lavoratore dovrà rispettare è quello prescrizionale ordinario (cfr. Cass. Civ., n. 24874/2019).

In caso di contestazione, è il datore di lavoro a dover dimostrare che il licenziamento intimato presenta tutti i requisiti, anche di forma, necessari per la legittimità del provvedimento.

Recentemente la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione (sentenza n. 26532/2022) ha affermato che la prova della forma scritta del licenziamento non può essere data dal datore di lavoro tramite testimoni. Pertanto, in assenza di un documento scritto (o della prova del suo incolpevole smarrimento, il che consentirebbe il ricorso alla testimonianza secondo quanto previsto dall’art. 2725 co. 1 c.c. e dall’art. 2724 n. 3 c.c.) l’intimazione è da considerarsi nulla per difetto della forma obbligatoria prevista ex lege.

Licenziamento tramite WhatsApp

Il proliferare massiccio dei sistemi di messaggistica istantanea ha certamente cambiato i modi di comunicare delle persone, anche all’interno dei luoghi di lavoro.

Non raramente, infatti, disposizioni organizzative, richiami o provvedimenti disciplinari vengono trasmessi dal datore di lavoro ai lavoratori anche tramite sistemi di messaggistica (SMS o messaggi WhatsApp) o via e-mail.

Da qui la domanda: un licenziamento comunicato via WhatsApp rispetta il requisito di validità della forma scritta?

A scanso di equivoci occorre dire che la materia è recente e non vi sono specifiche disposizioni di legge, sicché il dibattito al riguardo è aperto.

La Corte di Cassazione (cfr. ad esempio sentenza n. 29753/2017), nel caso di licenziamento comunicato tramite e-mail ordinaria (non PEC quindi), ha ritenuto legittimo il provvedimento. In tale caso è stata valorizzata, come aspetto rilevante e decisivo, la certezza che l’e-mail sia effettivamente venuta a conoscenza del lavoratore. Elemento che può essere dedotto o dalla risposta da parte del lavoratore licenziato o anche da altri elementi (ad es. il racconto del fatto a colleghi).

Analoghe considerazioni sono state effettuate (cfr. Corte d’Appello di Firenze, Sez. Lavoro, sentenza n. 629/2016) in caso di licenziamento intimato via SMS.

Tale interpretazione, quindi, può essere estesa anche al caso del licenziamento intimato tramite WhatsApp allorquando risulti provato che il lavoratore abbia inequivocabilmente imputato al datore di lavoro la comunicazione.

In modo conforme si è espresso il Tribunale di Catania con provvedimento del 27.06.2017 con il quale si è ritenuto assolto l’onere della forma scritta attraverso il messaggio WhatsApp.

Ciò perché il lavoratore licenziato ha certamente ricondotto tale comunicazione informatica al datore di lavoro tanto da impugnare tale atto.

Attenzione quindi, perché è del tutto possibile che una intimazione di licenziamento fatta tramite il famoso sistema di messaggistica istantanea possa avere validità formale e rilevanza giuridica.

Come impugnare il licenziamento ingiusto?

Il lavoratore che vuole impugnare il licenziamento deve manifestare con atto scritto da inoltrare entro e non oltre 60 gg. al datore di lavoro la propria volontà di impugnare il provvedimento comminato.

Ciò, come specificato dall’art. 6 co. 1 della L. n. 604/1966 deve avvenire “a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione del licenziamento in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso”.

Riassumendo i requisiti richiamati dalla sopracitata normativa, il lavoratore per impugnare il licenziamento comminato dovrà:

  • manifestare con atto scritto al datore di lavoro la propria volontà di impugnare il licenziamento comminato
  • l’impugnativa dovrà essere proposta entro il termine di 60 giorni a pena di decadenza dal momento in cui si è avuta comunicazione del licenziamento e/o delle motivazioni se disgiunte

È di assoluta importanza, quindi, che l’atto scritto di contestazione del licenziamento intervenga attraverso modalità tali da garantire al lavoratore la prova della tempestiva impugnazione (raccomandata a/r o a mani, fax, etc.).

Viceversa il provvedimento espulsivo si stabilizzerà ed il lavoratore perderà la possibilità di contestare la decisione presa dal datore di lavoro.

In caso di impugnazione spedita al datore di lavoro a mezzo del servizio postale, il termine decadenziale di 60 gg. è fatto salvo se entro tale periodo il lavoratore spedisce la lettera di impugnazione, non rilevando invece la diversa data di ricezione da parte dell’azienda poiché potrebbe darsi il caso che, a causa di circostanze non imputabili al lavoratore, l’impugnazione venga materialmente ricevuta dal destinatario con una tempistica maggiore (cfr. Cass. Civ., SS. UU., n. 8830/2010).

È valida l’impugnazione tramite Posta Elettronica Certificata (PEC)?

Nel caso in cui il lavoratore si rivolga ad un professionista per procedere con l’impugnazione del licenziamento, può darsi il caso che la trasmissione al datore di lavoro avvenga tramite PEC (Posta Elettronica Certificata).

In questo caso, si è posto il problema della forma che debba assumere l’impugnazione: è sufficiente il solo testo della comunicazione PEC? Oppure dev’essere allegata anche la comunicazione sottoscritta dal lavoratore e dal difensore?

La giurisprudenza di merito, allo stato, sembra essersi attestata nel senso di considerare legittima l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento trasmessa via PEC dal difensore contenente la scansione dell’atto cartaceo purché sottoscritto dal difensore e dal ricorrente, anche se privo di firma digitale (cfr. Trib. Roma, 20.10.2020, n. 86577; Trib. Palermo, (Ord.), 28.10.2020, n. 36015; Trib. Brescia, 17.04.2018, n. 352).

Si segnala tuttavia un filone giurisprudenziale minoritario -e che si ritiene non condivisibile- che afferma l’inefficacia dell’impugnazione presentata attraverso la scansione dell’impugnativa priva della sottoscrizione autografa e digitale del lavoratore e di quella digitale dell’avvocato (cfr. Trib. Monza, Ord., 29.01.2020).

Cosa succede quando si impugna il licenziamento?

Una volta impugnato il licenziamento con atto scritto stragiudiziale il lavoratore entro il termine massimo di 180 giorni dall’inoltro della contestazione -e non da quello, successivo, del ricevimento della stessa da parte del datore di lavoro (cfr. Cass. Civ., n. 17197/2020), deve a pena di irrimediabile inefficacia della contestazione (art. 6 co. 1 L. n. 604/1966):

oppure

  • comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato da promuovere per il tramite dell’Ispettorato del Lavoro di zona oppure secondo le analoghe procedure eventualmente previste dal CCNL applicato al rapporto.

Intrapresa questa strada, nel caso in cui la procedura richiesta dal lavoratore sia rifiutata dal datore di lavoro oppure non si raggiunga l’accordo in merito al relativo espletamento (quindi in ipotesi di pregiudiziale negazione della procedura) il ricorso giudiziale deve essere depositato entro e non oltre 60 gg. dal rifiuto o mancato accordo.

Laddove invece la procedura conciliativa si sia effettivamente svolta ma abbia avuto esito negativo si applica quanto previsto dall’art. 410 co. 2 cpc e, quindi, per l’intera durata della procedura e per i venti giorni successivi è sospeso ogni termine decadenziale: ciò significa che rimane efficace il termine di 180 gg. dall’impugnazione del licenziamento per il deposito del ricorso giudiziale, ma tale termine rimane “sospeso” e non decorre per l’intero periodo di svolgimento della conciliazione e per i 20 gg. seguenti alla sua conclusione.

Per completezza, è opportuno precisare che se il lavoratore propone l’impugnazione stragiudiziale prima del sessantesimo giorno, il termine per il deposito del ricorso decorre non già dalla conclusione del predetto periodo di 60 gg. bensì da quello antecedente della spedizione dell’atto di impugnazione (cfr. Cass. Civ., n. 12352/2017; Cass. Civ., n. 19710/2016).

Il licenziamento può essere revocato?

La legge (art. 18 co. 10 L. n. 300/1970) consente al datore di lavoro di ritornare sulle proprie decisioni e revocare il licenziamento, purché ciò avvenga entro e non oltre 15 gg. dalla impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore.

L’atto di revoca (che la giurisprudenza ritiene non debba necessariamente avere forma scritta, al pari dell’accettazione del lavoratore) può quindi intervenire:

  • dopo l’impugnazione del licenziamento ed entro 15 gg. dalla stessa: in questo caso il rapporto di lavoro è ripristinato senza soluzione di continuità ed il lavoratore ha diritto a percepire la retribuzione maturata nel periodo precedente la revoca, e tale effetto si produce indipendentemente dall’accettazione o meno da parte del lavoratore
  • prima dell’impugnazione del licenziamento: in questo caso, gli effetti “ripristinatori” del rapporto di lavoro si realizzano solamente ove il lavoratore dia il proprio assenso, in caso contrario egli potrà impugnare l’atto espulsivo

Rimani sempre aggiornato

La nostra newsletter mensile comprende aggiornamenti in ambito legale e consigli utili per tutti i nostri iscritti