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Le condotte vessatorie sul luogo di lavoro: il mobbing e lo straining

Se le normali difficoltà che si incontrano sul posto di lavoro si tramutano in vessazioni da parte del datore o di colleghi, il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno

vessazioni sul luogo di lavoro, il mobbing e lo straining

Mobbing e straining: cosa sono?

La giurisprudenza ormai consolidatasi negli anni consente di così definire le due fattispecie:

  • mobbing: è costituito da un complesso di comportamenti -che, di per sé soli considerati potrebbero anche apparire leciti- indirizzati nei confronti del lavoratore e realizzati dal datore di lavoro o da suoi superiori gerarchici (c.d. mobbing “verticale”) oppure da colleghi (c.d. mobbing “orizzontale”) ed aventi il fine specifico e preordinato di emarginare il destinatario ed indurlo a lasciare il lavoro
  • straining: il lavoratore subisce una situazione di particolare stress lavorativo, quindi di peggioramento della sua condizione occupazionale, causata da azioni ostili poste in essere nei suoi confronti, anche se limitate nel numero o distanziate nel tempo,  solitamente da un superiore in quanto la vittima deve trovarsi in una situazione di soggezione o inferiorità rispetto al soggetto che agisce

Mobbing e straining: differenze

Dalla breve descrizione fatta appaiono quindi chiare le differenze tra le due fattispecie, in sintesi:

  • dal punto di vista materiale: per parlare di mobbing dobbiamo essere al cospetto di una molteplicità di condotte frequenti e ripetitive, mentre lo straining è integrato anche da episodi sporadici e distanziati nel tempo
  • dal punto di vista psicologico: il mobbing ha come fine specifico quello di emarginare il lavoratore ed indurlo a fuoriuscire dall’azienda, lo straining non richiede tale elemento

L’assenza di un fine specifico sottinteso alle condotte poste in essere nei confronti della vittima, pertanto, rende lo straining più facile da dimostrare rispetto al mobbing; per questo spesso si sente dire che il primo è una forma attenuata del secondo.

Il risarcimento del danno

L’art. 2087 c.c. pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore.

Si può quindi affermare che in tale obbligo rientra anche quello di non dare seguito -direttamente o anche solo tollerando i comportamenti posti in essere da altri lavoratori in danno della vittima- ad iniziative che siano idonee a ledere la dignità psicofisica del dipendente.

In ossequio ai principi generali dell’ordinamento in materia di onere della prova in ambito contrattuale (cfr. art. 2697 c.c. ed art. 1218 c.c.) è il lavoratore che assume di essere vittima di mobbing o straining a dover dimostrare:

  • l’esistenza e l’entità della condotta vessatoria posta in essere nei suoi confronti, quindi la “nocività” dell’ambiente di lavoro
  • il danno alla salute e/o alla professionalità sofferto
  • il nesso di causa tra la prima ed il secondo

mentre spetta al datore di lavoro la prova dell’assenza di responsabilità, e quindi ad esempio:

  • che gli atti denunciati non sono in contrasto con l’obbligo di protezione di cui all’art. 2087 c.c.
  • che non vi è tra essi un collegamento di intento persecutorio o discriminatorio
  • che per fatto a lui non imputabile non è stato possibile eliminare o limitare il compimento degli atti vessatori

Quali sono i danni risarcibili?

Il lavoratore vittima di ostilità all’interno del luogo di lavoro può subire conseguenze negative risarcibili di diversa natura, segnatamente:

  • danni non patrimoniali (cfr. art. 2059 c.c.): conseguono alla lesione della salute in senso stretto perché le condotte poste in essere provocano malattie diagnosticabili (cfr. art. 32 Costituzione) oppure alla violazione della personalità morale ed esistenziale perché non causano infermità medicalmente accertabili ma alterazioni dello stato di benessere psicofisico -interiore e/o relazionale- del soggetto.

Al riguardo si può ricordare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la salute come “Uno stato di completo benessere fisico, sociale e materiale, e non soltanto l’assenza di malattia o di infermità”.

  • danni patrimoniali (cfr. art. 1223 c.c.): consistono nelle spese sostenute dal lavoratore in conseguenza delle vessazioni subite (ad es. per eventuali cure mediche e terapeutiche) ma soprattutto nella perdita della capacità di guadagno derivante all’inabilità psicofisica riportata oppure dalla lesione alla sua capacità professionale.

La seconda voce di danno costituisce quindi un “lucro cessante” poiché si proietta nel futuro, ed il risarcimento ha il fine di eliminare per quanto possibile il pregiudizio economico cui il lavoratore perseguito andrà incontro in conseguenza o della diminuita capacità di continuare a produrre lo stesso reddito del quale godeva prima delle condotte vessatorie oppure di non poter aspirare ad avanzamenti di carriera per le possibilità professionali perdute.

Mobbing: quali esempi si possono fare?

Per fare alcuni esempi -e sempre con l’avvertenza che ogni situazione va valutata nella sua specificità, quindi senza alcuna valenza assolutizzante, e che in ogni caso è necessario che sussista l’elemento psicologico costituito dall’intento persecutorio- il mobbing può in ipotesi configurarsi in presenza di:

  • ingiustificato demansionamento: il lavoratore si vede senza ragione esentare dalle proprie mansioni e destinato ad una inerzia forzata, magari accompagnata dalla perdita del proprio ufficio, della postazione e degli strumenti di lavoro, etc.
  • assegnazione di mansioni incoerenti o in contrasto con lo stato di salute o il livello di competenza
  • attacchi diretti a denigrare la persona del lavoratore (anche attraverso comportamenti discriminatori) o a sminuire la sua professionalità
  • isolamento ed emarginazione del lavoratore
  • richiesta di trasferimento incompatibile con le esigenze aziendali o con le necessità di vita del dipendente
  • assegnazione sovraccarico di lavoro
  • molestie anche a sfondo sessuale

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