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Il tentativo di conciliazione in ambito lavorativo

Tramite l’accordo conciliativo datore di lavoro e lavoratore -in sede stragiudiziale oppure in ambito giudiziale- pongono fine ad una controversia tra loro intercorrente, configurando così una vera e propria transazione (cfr. art. 1965 c.c.).

tentativo di conciliazione

L’art. 2113 c.c., la tutela del lavoratore e gli accordi “protetti”

Occorre innanzitutto precisare che l’ordinamento vede nel lavoratore la parte debole del rapporto, quindi da tutelare con apposite norme.

Tra queste, per quel che riguarda l’ambito conciliativo, rientra l’art. 2113 c.c. il quale sostanzialmente prevede che gli accordi transattivi raggiunti in proprio tra datore di lavoro e lavoratore non sono validi e possono essere impugnati dal lavoratore entro il termine di sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della transazione se intervenuta dopo il termine del rapporto di lavoro.

Per ovviare a tale eventualità occorre che l’accordo conciliativo sia sottoscritto dalle parti in un ambito detto “protetto” (cfr. art. 2113 u.c.), così che si possa presumere che la volontà conciliativa del lavoratore sia effettiva ed autentica.

Sinteticamente sono da considerarsi ambiti “protetti”:

  • la sede giudiziale ex art. 420 c.p.c.
  • la sede extragiudiziale “amministrativa” costituita dalle Commissioni di Conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro ex art. 410 c.p.c. Sino al 2010 la parte del rapporto che avesse voluto instaurare una qualsiasi causa civile avanti al giudice del lavoro aveva l’obbligo di esperire preventivamente questo tipo di procedura conciliativa: oggi tale obbligo non esiste più (salvo casi particolarissimi), essendo stato mutato in una mera facoltà dall’art. 31, L.n. 183/2010
  • la extragiudiziale “sindacale” ex art. 411 c.p.c.
  • la sede extragiudiziale costituita dai Collegi di Conciliazione ed Arbitrato ex art. 412 ter ed art. 412 quater c.p.c.

L’accordo in sede giudiziale

La conciliazione giudiziale è quella raggiunta dalle parti avanti al Giudice del Lavoro al quale è affidata la causa instaurata dal datore di lavoro o dal lavoratore.

Ai sensi dell’art. 420 c.p.c., infatti, alla prima udienza di discussione il giudice “tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa … Il verbale di conciliazione ha efficacia di titolo esecutivo”.

A tale scopo le parti devono essere presenti personalmente in udienza oppure possono farsi sostituire da altra persona che sia a conoscenza dei fatti della causa ed alla quale sia attribuito espressamente il potere di conciliare e transigere la controversia.

La norma speciale dell’art. 420 c.p.c., peraltro, è del tutto analoga a quella più generale prevista dall’art. 185 c.p.c.

L’accordo in sede stragiudiziale

In sede stragiudiziale, le forme più comuni di conciliazione sono quelle previste:

  • in sede amministrativa presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro

La domanda deve essere indirizzata alla Commissione di Conciliazione dell’Ispettorato Territoriale competente per territorio (da determinarsi secondo i criteri previsti dall’art. 413 c.p.c.), composta oltre che dal direttore dell’ufficio -o suo delegato in funzione di Presidente- da rappresentanti paritetici di datori di lavoro e lavoratori designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Copia della domanda deve essere anche inviata alla controparte, che può aderire o meno alla procedura (in quest’ultimo caso ciascuna parte può liberamente rivolgersi all’autorità giudiziaria).

A seguito del ricevimento della domanda, la Commissione convoca le parti per il  tentativo di conciliazione: se esso riesce, in tutto o in parte, viene redatto il relativo verbale di accordo che viene poi sottoscritto dalle parti e dai componenti la commissione e che il Giudice del Lavoro, su richiesta, può dichiarare esecutivo con apposito decreto (cfr. art. 411 co. 1 c.p.c.).

Se la conciliazione non riesce, è previsto che la Commissione formuli alle parti a sua volta una proposta di definizione la quale, ove non accettata, dev’essere riassuntivamente indicata nel verbale unitamente alle motivazioni delle parti così da consentire al giudice dell’eventuale causa introdotta successivamente ogni valutazione al riguardo.

  • in sede sindacale

Questa via è alternativa a quella amministrativa, la procedura è quella prevista dai contratti ed accordi collettivi vigenti.

Se la conciliazione riesce, il verbale redatto e sottoscritto dalle parti è depositato presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro competente per territorio il cui direttore provvede a sua volta a depositarlo presso la cancelleria del Tribunale per l’eventuale dichiarazione di esecutività su richiesta della parte interessata (cfr. art. 411 ultimo comma c.p.c.).

In caso di fallimento del tentativo conciliativo si applicano le previsioni dettate per la procedura in sede amministrativa.

La procedura preventiva in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L’art. 1 co. 40 L. n. 92/2012 ha introdotto una nuova ipotesi di procedura preventiva obbligatoria per i datori di lavoro che, soggetti alla disciplina dell’art. 18 L. n. 300/1970 (c.d. “Statuto dei Lavoratori”), intendano procedere con il licenziamento del dipendente per giustificato motivo oggettivo (e cioè quello da motivato da “ragioni  inerenti  all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” secondo quanto previsto dall’art. 3, seconda parte, L. n. 604/1966).

In questo caso, il provvedimento espulsivo deve essere preceduto da una comunicazione, indirizzata all’Ispettorato Territoriale del Lavoro competente e al lavoratore per conoscenza, nella quale il datore di lavoro indica la propria intenzione ed i relativi motivi.

L’Ufficio territoriale convoca quindi datore di lavoro e lavoratore per esaminare la possibilità di soluzioni alternative e diverse rispetto al licenziamento (la procedura dovrebbe concludersi nel termine di 20 gg. dall’invio della convocazione).

A seconda dell’esito dell’incontro potrà accadere che:

  • se il tentativo di conciliazione fallisce, il datore di lavoro può comunicare al lavoratore il licenziamento per giustificato motivo oggettivo;
  • se il tentativo ha esito positivo e la conciliazione prevede anche la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro il lavoratore ha comunque diritto di accedere alla NASpI – Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (ex “disoccupazione”).

La riforma del processo civile

Nel maggio 2021 il Governo ha elaborato un maxi emendamento con oggetto “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie” (AS n. 1662/S/XVIII) nell’ambito degli interventi da realizzare in ottica Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa (PNRR).

In esso, tra l’altro, è stabilito (art. 2, lett. d) di “prevedere,per le controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, fermo restando quanto disposto dall’articolo 412-ter del medesimo codice, senza che ciò costituisca condizione di procedibilità dell’azione, la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita, a condizione che ciascuna parte sia assistita dal proprio avvocato, e prevedere altresì che al relativo accordo sia assicurato il regime di stabilità protetta di cui all’articolo 2113 del codice civile”.

Nel caso in cui tale raccomandazione dovesse tradursi in legge, pertanto, in futuro anche le transazioni e conciliazioni a cui datore di lavoro e lavoratore addivengano secondo la procedura della negoziazione assistita ex art. 2, D.L. n. 132/2014 sarebbero considerate raggiunte in c.d. “sede protetta” ai fini della impossibilità di impugnazione secondo quanto stabilito dall’art. 2113 c.c.

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