Le professioni che richiedono al lavoratore di indossare un particolare vestiario o una vera e propria divisa da lavoro sono molteplici. Si passa dai canonici ruoli “istituzionali” (forze dell’ordine, esercenti professioni sanitarie, magistrati ed avvocati togati, etc.) ai più comuni mestieri privati (hostess, addetti sala, cuochi, commessi, etc.).
È intuitivo peraltro come rientri nella diligenza generica del prestatore di lavoro anche il presentarsi al prossimo -collega o cliente che sia- in maniera gradevole o non contraria al decoro.
È quindi importante per il lavoratore sapere come comportarsi al riguardo. Difatti, da ogni violazione agli obblighi posti a suo carico può discendere una contestazione disciplinare.

Il vestiario richiesto al dipendente: abito o divisa da lavoro?
Parlare di “abito” o di “divisa” da lavoro non è, tecnicamente, la stessa cosa.
Possiamo infatti dire che ricorre la prima ipotesi allorquando il datore di lavoro richiede al personale di indossare un certo vestiario ma non una vera e propria “uniforme” che, ad esempio, preveda segni distintivi dell’azienda.
Ciò che viene chiesto al dipendente, in sostanza, magari anche tenuti in considerazione la funzione o il ruolo ricoperti in azienda, è di presentarsi al lavoro con indumenti propri, scelti a proprio piacimento, purché nel rispetto di un certo stile.
Diversamente, può darsi il caso in cui l’azienda, anche al fine di promuovere o valorizzare il proprio marchio, quindi all’interno anche di una strategia di marketing, chieda ai dipendenti di vestire secondo un determinato dress code (si pensi ad esempio a catene di negozi o esercizi commerciali, supermercati, etc.).
Palese che, diversamente dalla prima situazione, siamo al cospetto non di una semplice indicazione di massima data dal datore di lavoro, bensì ad una direttiva vincolante in ordine allo stile del vestiario che i lavoratori sono tenuti a rispettare, che viene così a configurarsi come una vera e propria “divisa aziendale”.
Ipotesi ancora diversa è quella relativa agli indumenti il cui utilizzo il datore di lavoro richieda per finalità di prevenzione e protezione in adempimento degli obblighi di sicurezza (cfr. art. 2087 c.c.; D.Lgs. n. 81/2008): in questo caso, ciò che viene richiesto al lavoratore è di utilizzare obbligatoriamente nello svolgimento delle mansioni i c.d. dispositivi di protezione individuale (es. casco, guanti, scarpe anti-infortunistica, etc.) che hanno lo scopo di ridurre per quanto possibile i rischi per la salute e l’incolumità dei dipendenti.
Tali dispositivi di protezione debbono essere forniti, messi a disposizione e mantenuti in efficienza dal datore di lavoro (cfr. art. 18 co. 1 lett. d), D.Lgs. n. 81/2008) senza gravare economicamente sul lavoratore (cfr. art. 15 co. 2, D.Lgs. n. 81/2008).
Divisa da lavoro: a carico di chi i relativi costi?
La classificazione sopra illustrata ha effetti, tra l’altro, in ordine ad acquisto e lavaggio del vestiario, circostanze che, in assenza di una specifica regolamentazione nel contratto individuale di lavoro, si possono ritenere disciplinate come segue.
Nel caso di “abito” da lavoro -ipotesi che ricorre, come detto, allorquando il datore di lavoro si limita ad indirizzare ai lavoratori indicazioni di massima in ordine allo stile aziendale- i costi di acquisto e lavaggio degli indumenti sono a carico del dipendente, perché egli utilizza abiti propri, da lui scelti, che non recano su di essi immagini e marchi aziendali.
Diversamente, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro prescriva ai dipendenti di indossare una ben determinata “divisa” che rappresenta l’azienda sarà il datore medesimo a dover provvedere a fornire ai lavoratori gli indumenti richiesti, senza oneri a loro carico.
Al lavoratore è ovviamente richiesto di avere cura del vestiario e di non danneggiarlo per negligenza, situazione che potrebbe comportare la richiesta del datore di lavoro al dipendente di risarcire o indennizzare il danno provocato a quello che a tutti gli effetti è da considerarsi patrimonio aziendale.
Cosa è richiesto ai commessi di negozi di abbigliamento?
Un caso esemplare, sotto gli occhi di tutti, è quello dei negozi di abbigliamento (soprattutto catene o franchising) dove i dipendenti sono chiamati ad indossare articoli dell’azienda per la quale lavorano, così da promuoverne l’immagine agli occhi della clientela che, indipendentemente dal singolo esercizio, si trova al cospetto di uno stile omogeneo degli addetti alla vendita.
La normativa di settore prevede che “Quando viene fatto obbligo al personale di indossare speciali divise la spesa relativa è a carico del datore di lavoro” e che al termine del rapporto di lavoro tali indumenti vadano restituiti ovvero, se ciò non è possibile per incuria addebitabile al lavoratore, rimborsati al datore di lavoro (cfr. art. 230 CCNL Commercio-Terziario)
Non sono quindi condivisibili eventuali prassi che comportino la richiesta del datore di lavoro al lavoratore di acquistare, con onere economico a proprio carico ed anche potendo usufruire di “sconti dipendenti”, i capi di una collezione aziendale da indossare in negozio: come detto, laddove l’azienda non lasci libertà di scelta in ordine al vestiario bensì richieda di utilizzare ben determinati capi e vestiti darà essa stesa a doverli fornire ai propri sottoposti, sostenendone i costi.
Come è regolato il c.d. “tempo tuta”?
Altro tema di interesse, correlato alla materia del vestiario aziendale, è quello dell’eventuale diritto del lavoratore ad essere retribuito per il tempo impiegato a cambiarsi ed indossare gli indumenti da lavoro (c.d. “tempo tuta”).
Partendo dalla premessa che il datore di lavoro può chiedere (e pretendere) che i dipendenti utilizzino “divise” da lavoro, va da sé che il tempo necessario al lavoratore per ottemperare ad una tale richiesta non può tradursi per lui in un danno.
In sostanza, così come il datore di lavoro non può chiedere al lavoratore di sobbarcarsi l’onere economico dell’acquisto e lavaggio della divisa da lavoro imposta, così non dovrebbe poter prendere che il tempo necessario alle operazioni di vestizione e svestizione rimanga privo di ristoro per il dipendente (che altrimenti dovrebbe impegnare il proprio tempo libero senza ottenere nulla in corrispettivo), il quale è pur sempre chiamato ad ottemperare ad una precisa ed espressa indicazione datoriale passibile, se del caso, di sanzione disciplinare.
Che il tempo-tuta possa essere fatto rientrare nell’orario di lavoro è principio desumibile anche dalla legge che lo definisce come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni” (cfr. art. 1, co. 2, lett. a), D.lgs. n. 66/2003).
Tale ragionamento porta quindi a concludere che il cd. “tempo-tuta” è da considerarsi, a tutti gli effetti, come orario di lavoro che va pagato al lavoratore, attraverso la normale retribuzione oraria.
Per vero, l’orientamento consolidato della giurisprudenza (cfr. Cass. Civ., Sez. Lavoro, n. 21168/2021 e n. 15763/2021) afferma che il tempo richiesto al lavoratore per indossare l’abbigliamento di servizio rientra nell’orario di lavoro:
- laddove sia il datore di lavoro a disciplinare tempo e luogo dell’attività di vestizione (c.d. eterodirezione)
Non rientra nell’orario di lavoro:
- Laddove il prestatore abbia avuto in dotazione gli indumenti di lavoro e gli sia consentito portarli a casa, recandosi al lavoro avendoli già indossati.
Quindi, nell’ipotesi in cui al lavoratore sia concessa la facoltà di scegliere tempo e luogo di vestizione (ad es. a casa propria prima di recarsi al lavoro), dal momento che trattasi di attività rientrante tra quelle preparatorie allo svolgimento delle mansioni, il “tempo-tuta” non andrà soggetto a retribuzione.